mercoledì 1 ottobre 2014

Il mio futuro è tra i marziani

Oggi lasciamo la parola a Camilla R., la nostra anziana mangiatrice di soia che ci propone un pezzo sul maggico mondo dei giovani choosy, bamboccioni, sfigati eccetera eccetera eccetera - elencare termine a caso che negli ultimi tre anni è stato attribuito ai ragazzi in cerca di lavoro. Buona lettura. 
(Nella foto, la mascotte/ scaffale del MMAB creata da noi.)







Siete mai stati disoccupati? Non è malissimo, le prime mezz'ore. Mi spiego: quando uno è disoccupato, tende naturalmente ad alzarsi dal letto più tardi e più intontito di quando deve andare a lavorare. Okay, il bravo genitore o il life coach esperto o il perfetto manuale dell'uomo di successo ci diranno che dobbiamo svegliarci presto, fare esercizi di meditazione, riflettere su cosa vogliamo dalla vita, bere un frullato vitaminico di cetriolo e banana e vai a sapere che altro per mantenere alta la dignità e il livello fisiologico di speranza verso il futuro, ma siamo seri. L'agenzia interinale non apre prima delle nove, è vicino casa e resta lì almeno fino a mezzogiorno e mezzo. Un'oretta in più di sonno ce la meritiamo pure, visto che soldi non ne guadagnamo.
Insomma, dicevo, ci si sveglia intontiti. E quell'essere intontiti è sublime. Perché non ci si ricorda, è uno stato di benedizione, di grazia, di concessione di ferie da quel posto di lavoro costante che è vivere. Soprattutto non ci si ricorda che spesso il fatto di dover andare a lavorare tutti i giorni non è soltanto una certezza fisica ed economica, ma è anche un modo per mettere tanti problemi in stand by. Problemi di socialità, di senso, di rapporti umani, di quello che siamo ancora disposti a imparare o a disimparare, del carattere de sta cippa che ci ritroviamo; tutte cose che non contano quando si possiede un sano e sincero contratto a tempo determinato.
Io non sono stata disoccupata a lungo, ma lo sono stata tante volte. Diciamo che la disoccupazione nella mia vita è un po' la terza certezza: c'è la morte, c'è mia madre che mi telefona per chiedermi se per caso non voglio un chilo di pomodori che le avanza, e poi c'è la disoccupazione.
Alcuni miei compagni di università proprio non riescono ad abituarsi a questa cosa. Per dire, c'è una mia amica che si è laureata in giurisprudenza, ha fatto due anni di praticantato non retribuito, ha dato l'esame di stato, è diventata avvocato, ha trovato il suo primo impiego e mo' sono passati un tot di mesi ed è disoccupata. Disperata, scrive su facebook strazianti massime sull'incomunicabilità esistenziale del giovane laborioso, posta foto di scatole da ufficio tipo quelle che si vedono nei telefilm americani in cui ha riposto i pochi oggetti che stavano sulla sua scrivania nello studio dove lavorava, ringrazia sentitamente la sagra dell'anatra muta di Marcignana per aver permesso anche a una povera come lei di mangiare da signora.
Invece io no. Io, come nel Dottor Stranamore, ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba. So che, puntuale ogni due-tre anni, arriva quel momento. In cui devo smettere di comprare la frutta al mercato e andare al discount. In cui tocca portare i panni da lavare a casa dei miei così almeno un costo lo abbatto. In cui devo valutare l'idea di piantarla con l'abbonamento a internet e collegarmi solo da wi-fi. In cui prendo i libri in biblioteca e mi annoto tutti quelli che mi sono piaciuti nella speranza di potermeli comprare quando e se avrò di nuovo un lavoro. In cui mi sveglio intontita e penso: ma che ci fa questo problema qui? Non avevo ovviato? E lo accetto.
Così esco di casa, quando quel momento arriva, e nonostante gli anni che passano la sensazione resta la stessa. Guardo le persone, le scruto. Osservo i loro modi, dove vanno, cosa indossano; e sembra che tutti sappiano esattamente qual è la loro direzione, la loro meta, il loro scopo. Avanzano stabili, esaminano le vetrine dei negozi con l'aria di ponderare con sicurezza le dimensioni e l'utilità degli oggetti che acquisteranno; poi, determinati, proseguono la marcia.
Allora inizio ad allontanarmi. Ho paura, devo farlo. Sono troppo confusa per rimanere tra gli esseri umani. L'essere disorientata mi causa distacco, e il distacco presto diventa una levitazione. Non sapendo che fare, o dove andare, vado verso l'alto. Dal levitare si passa al fluttuare, e dal fluttuare al volo. Ed è un volo, il mio, che somiglia non al preciso orientarsi di un mezzo aereo, bensì alla risalita sballottata dalle correnti di un palloncino.
Ed eccomi. Sono un'astronauta. Ora quegli individui così certi, così solidi, così decisi, mi appaiono uno sbiadito insieme lontano, una bassa nuvolaglia. Provo a toccarli dalla mia navicella, dove la gravità non esiste e l'incedere sicuro e dritto è un'utopia. Mi chiedo se ogni tanto, anche loro, non si sentano come se stessero sprecando la vita dietro a una sfilza di luoghi e stipendi e datori di lavoro che puntuamente preferiscono non rischiare e non dare chance a nessuno.
Ma, ora che sono quassù, tutto ciò non mi riguarda come quando stavo sulla Terra. Ora che sono quassù, il mio futuro è tra i marziani.

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